Ricordo bene l’odore dell’Ospedale.
Quando con mio fratello, piccoli, mia madre veniva a prenderci a scuola elementare e, di ritorno verso casa, ci portava a salutare papà al lavoro.
Quell’odore di disinfettante e di pulito, di alcool e malattia, di complesso vitaminico e riscaldamenti, quell’odore che a tanti non piace ma che a chi ci cresce dentro sa così di familiare.
E mio padre lì, nel suo camice bianco e inamidato, rigorosamente abbottonato, cravatta e stilografica nel taschino: agli occhi di un bambino era quasi un supereroe, e agli occhi di un bambino curioso, quale io ero, sembrava quasi un mago, un veggente, capace com’era di manovrare complicati macchinari e svelare le imperfezioni di un globulo rosso o ritrovare un mefitico parassita con il suo potente microscopio.
Credo che sia accaduto in occasione di una di queste visite, o forse mentre, non visto, a casa mi rifugiavo nello studio per sfogliare uno dei suoi tanti libri (e anche loro avevano un profumo magico) alla ricerca di qualche immagine scabrosa, di qualche strana malattia.
Si, accadde allora: decisi che da grande volevo fare il Medico.
E oggi, tanti anni dopo, mio padre non c’è più, e quel camice lo vesto io.
Non è sempre inamidato e lindo, non c’è la stilografica nel taschino. Che volete.. faccio l’Anestesista!
Ma la più grande differenza è che non basta a farmi sentire l’eroe che vedevo in mio padre.
Quello, certe volte, forse troppo poche vista la mia Specialità, mi ci fanno sentire i pazienti.
Il camice, invece, mi fa sentire tante altre cose.
Frainteso: dato che il camice lo portano in tanti, e talora i pazienti non lo associano nemmeno alla figura del Medico. Come quel signore che una volta, dopo che io mi presentai come l’Anestesista (rigorosamente in camice), mi disse “si va bene, ma ora voglio parlare co’ Dutturi”.
Precario: dato che dei miei 18 anni dalla Laurea, di cui 15 nella Professione, 10 li ho passati da precario “a tempo indeterminato”.. in un processo che, a meno che tu non sia forte e motivato, uccide lentamente il tuo entusiasmo e la tua voglia di professionalità, perché ti fa sentire come il vasetto di yogurt lasciato in frigo e che va consumato prima dell’inesorabile scadenza.
Kamikaze: bandana con il sol levante e ben saldo nel luccicante Mitsubishi Zero in picchiata sulla corazzata. Certe volte ti senti proprio così, proiettato nel vuoto, lanciato nell’arena, senza munizioni o armi per combattere la tua battaglia, fatta di presidi che non funzionano, farmaci che mancano, organizzazioni simili ad un rompicapo cinese, burocratismi degni dei peregrinaggi mentali dell’Ulisse di Joyce e pazienti che giustamente reclamano il loro sacrosanto diritto alla salute.
Che ne sanno loro che tra hub e spokes, telemedicina e PACS, smartphone e pillole magiche, alle tre del mattino ti ritrovi su un’ambulanza che sferraglia come una diligenza sul Rio Grande, per portare a Lentini un malato che è arrivato al Vittorio Emanuele, è stato studiato al Ferrarotto, “consulentato” al Cannizzaro, che en passant ha pure salutato il vicino ricoverato a Nesima? Un malato che, se non è morto per l’infarto originario, come minimo si fa un trauma cranico lungo il tragitto..
Nudo: vestito di un camice trasparente, evanescente.. perché nessuna sicurezza ti ammanta, nessuna Istituzione è lì a fianco a te quando irrompono in Pronto Soccorso i moderni Unni guidati da un improvvisato e coreografico Attila del luogo, maschio alfa di un branco che accecato dal (giusto) dolore, corrotto dalla (inevitabile) preoccupazione per il suo congiunto (indipendentemente dal grado di sangue) devasta ogni suppellettile, vetrata, strumento o osso che incontra sul suo cammino.
O ancor peggio quando, in una società in cui le Assicurazioni hanno smesso di pagare i più o meno dimostrabili colpi di frusta, è diventato lecito gridare alla Malasanità anche se trovi la macchina con una ruota a terra. E subito, aizzati e incoraggiati dai simpatici orsacchiotti che troneggiano sui manifesti in giro per la città ricordandoti che hai fino a 10 anni per rivendicare un danno da errore medico, tutti pronti a cercare sulle pagine gialle (scusate.. ricordi di gioventù.. ormai è lo smartphone!) il nome di un avvocato di grido per cercare di ottenere quanto ti serve per una macchina nuova (la ruota non basta!). O magari una meritata vacanza in località esclusiva. Tanto, nessuno ha qualcosa da perdere!
Già, nessuno.. se non chi veste quel camice, che, se capita un “problema” in ospedale, si vede proiettato agli onori della cronaca come se fosse Jack lo Squartatore, con battage pubblicitario degno di una prima di Cannes e sproloquio di dettagli immaginifici, e spesso immaginari, degni della migliore tradizione delle telenovelas sudamericane e del curtigghiu di paese. Portando sulle spalle un peso tanto più pesante quanto più scrupolosa è la sua attenzione e ferreo il suo senso del dovere.
Perché poi, quando tutto finisce, quando le luci della ribalta si spengono, non c’è nessun telegiornale o quotidiano che dice alla gente che il Dottor X, indagato, inquisito, denigrato ed esposto al pubblico ludibrio, dopo l’anno-anno e mezzo di rito della velocissima italica giustizia (e volutamente con la minuscola) è stato prosciolto, archiviato o assolto per non aver commesso il fatto. L’innocenza non fa notizia..
E in tutto questo, spesso, ti senti stupido in quel tuo camice bianco; perché non era così che da bambino ti immaginavi di fare il Medico. Impotente, perché vorresti cambiare il mondo e, alla fine, il mondo sta cercando di cambiare te.
E allora quel camice ti fa sentire anche arrabbiato, con un interlocutore che non c’è, anche se teoricamente siede li, su una “poltrona in pelle umana con pianta di ficus simbolo del potere” di fantozziana memoria, segnando la tua quotidianità professionale con una firma su un documento scritto a metà tra l’aramaico ed il burocratichese di cui capisci solo le ultime tre-quattro righe. Che, inesorabilmente, significano solo tagli, camurrie, brutte notizie e promesse di marinaio..
E poi, così, quando meno te lo aspetti, arriva un sorriso.
Un abbraccio, un tabarin di paste di mandorla, una bottiglia di levissima piena di olio appena spremuto o vino di casa, sinceru.
Uno sconosciuto con la faccia che devi aver visto da qualche parte che ti fa un cenno con la testa quando arrivi alla cassa a pagare il caffè.
Ed il cassiere ti sussurra “pagato”, indicando proprio quello sconosciuto-conosciuto con un moto in contrappunto della testa, tutto siciliano, che in un attimo proietta un fascio di luce nell’oscurità post-turno di notte della mente: quel paziente cui sei riuscito a far passare una febbre ostinata, cui hai curato un ascesso, cui hai preso una vena o che si lamentava all’unisono con te, sempre alle tre del mattino, delle buche che ostinatamente l’ambulanza coglieva tutte su un sentiero pseudo-autostradale vero-altomontano..
Una di quelle vittime silenziose della buona Sanità.
Quella che, a differenza della Mala, esiste in sordina, operosa, prevalente, costante.
Che non ha denunce, titoli sui giornali, apparizioni al fianco di una sempre empatica Barbara D’urso o di un Gabibbo rosso-globulo rosso.
Fatta di studio, pazienza, di un’inventiva tutta siciliana figlia di secoli di darisi vessu. fatta di professionisti giovani, senza stilografica ma con l’ipad, senza tempo indeterminato ma determinati.
Costruita sul sacrificio e la voglia prima che sulle risorse e sui protocolli, fatta da uomini e donne prima che da medici e paramedici, fatta di sorrisi insieme all’endovena, di carezze insieme allo sciroppo, di sguardi di fiducia prima di un bisturi, di una battuta sagace o salace, di lacrime e risate quando tutto inizia o quando tutto finisce. Fatta spesso di un gesto o di una parola prima ancora di una terapia.
Quella buona Sanità che è di fatto la normalità che tutti danno per scontata, in quanto dovuta, che quasi smetti di apprezzare come quando dimentichi l’amore del compagno di una vita, accorgendoti di quanto era importante solo quando ne piangi l’assenza.
Quella buona Sanità che ci piacerebbe che i pazienti denunciassero prima di quella cattiva, che i manifesti vorremmo che propagandassero per le strade della città (ma senza orsacchiotto, per cortesia!). Anzi, siccome siamo moderni e smart generation, questa ovazione la vogliamo anche sulle pagine del web.
Si, proprio di questo vorremmo leggere: di quella buona Sanità che è un diritto del cittadino e un dovere del Medico, ma che al tempo stesso è, e dovrebbe essere, un diritto del Medico e un dovere del cittadino.
Quella buona Sanità che la sera, quando torni a casa, stremato, affranto, e solo dopo aver messo il camice in lavatrice per farlo tornare bianco, prende la forma di una croccante pasta di mandorla tirata fuori dal tabarin.
E in quel sapore di mandorle e agrumi, col solletico dello zucchero a velo sul palato, trovi la tua risposta, ritrovi le tue memorie di bambino.
Da grande volevo fare il Medico.
E lo sto facendo, malgrado tutto e tutti; le paste di mandorla non sono certo notizia da quotidiano, telegiornale o scoop giornalistico.. ma non mentono!
Massimiliano Sorbello