No-mask. No-vax. No-pass. Avete fatto caso che alla base di queste denominazioni c’è sempre il no, cioè l’avverbio negativo olofrastico per eccellenza? Olofrastico vuol dire che, pur preso singolarmente, l’avverbio equivale a una frase intera [Domanda: Ti sei vaccinato? Risposta: no (non mi sono vaccinato)].

I problemi nascono quando una posizione non è assertiva ma negativa: perché presuppone l’assenza a monte del pensiero lento necessario a costruire con cura un concetto o un’idea. L’asserzione costruisce il pensiero, la negazione lo distrugge (certo, esistono casi limite in cui la distruzione è non solo legittima ma necessaria. La costituzione italiana, per esempio, nacque proprio in chiave negativista: la libertà è possibile solo in assenza di fascismo).
Curioso che, di questi tempi, la negazione abbia a che vedere con l’espressione dell’ingegno umano che più benessere ha portato alla razza umana: la medicina, cioè la cura della salute. Andatevi a rivedere i dati della mortalità infantile degli anni ‘50 e ‘60. L’età media della popolazione italiana negli anni ‘30. L’incidenza nel 1800 di alcune malattie adesso (quasi) del tutto scomparse. Il miglioramento è evidente, lampante: così lampante da sfuggire a qualsiasi tentativo di essere messo in discussione. E allora?
Qualche tempo fa mi accadde di parlare con una persona il cui padre era stato oggetto di un errore diagnostico. Errore che con il senno di poi appariva chiaramente innegabile. Questa persona era arrabbiatissima: il padre ottantenne era stato vittima di un danno, e lei sarebbe comunque andata, come ebbe a ripetermi più volte, “a fondo della cosa”.
“A fondo della cosa”, tradotto nel linguaggio dell’uomo della strada, vuol dire solo una cosa: vado da un avvocato e faccio partire la denuncia. La quale ha due moventi possibili: o ci si vuole vendicare direttamente del medico che ha sbagliato (causa penale) o del sistema che ha permesso l’errore, chiedendo un risarcimento (causa civile). In entrambi i casi il danno arrecato all’intero sistema è enorme, e cerco di spiegare il perché.
Cominciamo dalla causa civile: i soldi di risarcimento, che in genere si ottengono perché le aziende ospedaliere preferiscono transare che andare in causa, fanno sempre comodo (specialmente in tempi di crisi). Certo, ci sono anche danni permanenti che implicano spese mediche ingenti da parte della famiglia dell’offeso, e allora tutto giusto. Ma cause intentate, e sono le più, su un ritardo diagnostico di tre giorni riguardo per esempio una banale frattura misconosciuta del polso? Quei soldi sono sottratti all’intero sistema sanitario nazionale: le tasse di tutti serviranno a pagare le manovre quantomeno scorrette, se non disoneste, di qualcuno in malafede. E in questo, devo dire, il corpo degli avvocati ha fornito negli ultimi decenni una sponda micidiale.
Ma peggio è la causa penale: perché tocca direttamente il medico. Vendicarsi dell’errore di un bravo professionista, uno che opera seicento addomi all’anno o referta diecimila tra TC e risonanze magnetiche nello stesso periodo, non ha funzione educativa. Il professionista, se degno di questo nome, non riceverà alcun ammaestramento morale dall’accusa e dalla relativa causa: solo stress, che si sommerà a quello già esistente per le condizioni precarie in cui operano i medici oggi. Un medico che affronta una causa penale ne trarrà conseguenza che prescinderanno l’esito delle causa stessa: il suo rapporto con i malati cambierà in peggio. Il tempo dedicato alla studio e al lavoro subirà una contrazione inevitabile. La voglia di sacrificarsi affinché un sistema allo sbando possa sopravvivere verrà meno. A ogni problema, che prima il medico avrebbe affrontato rimbeccandosi le maniche, seguirà un sacrosanto: esticazzi. Voi lo potrete anche punire, vincendo la causa penale intentata nei suoi confronti: ma alla fine avrete solo abbattuto un altro mattone del servizio sanitario pubblico; spinto un altro medico tra le braccia generose dei privati; contribuito alla crisi di personale che ha spopolato gli ospedali (spingendovi a chiamare i carabinieri perché vostro padre aspettava da tre ore nella sala d’attesa del pronto soccorso, in preda al solito mal di schiena cronico). Punendo un medico di cui ignorate la storia personale, l’attaccamento al lavoro, la dedizione alla causa e il rendimento lavorativo, fate come il marito che sceglie di evirarsi perché la moglie non vuole più avere rapporti sessuali con lui.
Ma io già la intuisco, la vostra risposta: qui non parliamo dei massimi sistemi, il danno è stato fatto a me. A ME! Come mi ha sempre detto un amico polemico: non mi interessa che il medico sbagli, io voglio che non sbagli con me. Il vizio logico insito in questa affermazione è evidente e non merita di essere approfondito; però c’è un aspetto che lo lega al punto di partenza della nostra chiacchierata: i no-vax.
Buona parte di chi sceglie di non vaccinarsi non nutre la irragionevole paura che col vaccino gli iniettino nelle vene un microchip, auto-attivantesi sotto il ripetitore del 5G, il quale lo trasformerà un uno zombie eterodiretto dai Poteri Occulti del Mondo. Ha solo la legittima paura che il vaccino gli nuoccia fisicamente, e gli arrechi danni sulla breve e lunga distanza. Il che, entro certi limiti, è senz’altro comprensibile: infatti a confortare gli scettici sarebbe servita un’informazione serena e obiettiva e non il festival di sciamannati, luminari o ex-luminari in decadenza, imbonitori e politici senza scrupoli, che si sono succeduti su televisioni, social e giornali nell’ultimo anno e mezzo.
Qui entra in gioco il famoso Problema del Carrello. Cito testualmente da Ottavio Davini: “Il problema del carrello ipotizza che ci si trovi in prossimità di uno scambio ferroviario e lo si possa comandare facilmente. Vediamo un treno che arriva lungo la rotaia, e scopriamo con terrore che dopo lo scambio ci sono cinque persone legate, destinate a essere travolte e uccise. Ma sull’altro binario, dove il treno andrebbe se agissimo sullo scambio, c’è un’altra persona, anch’essa immobilizzata! Quindi se noi agiamo sullo scambio il treno cambierà direzione e ucciderà comunque, ma una sola persona invece di cinque. Il dilemma etico sta nel fatto che per salvare cinque persone noi dobbiamo agire e decidere che ne uccidiamo un’altra.
Qualunque fosse la popolazione sottoposta al test, nella maggioranza dei casi la risposta è sempre stata: manovrerei lo scambio; quasi tutti convengono che sacrificare una vita per salvarne cinque sia etico e doveroso”.
Di fronte a un dilemma del genere, quindi, quasi tutti sicuramente propenderemmo per il male minore: la morte di una sola persona. È una scelta più razionale di quanto si possa immaginare: noi scegliamo sempre a vantaggio della sopravvivenza della specie, e i grandi numeri hanno sempre la predominanza sul singolo caso, per quanto umano sia. Lo stesso vale per la medicina: il singolo, presunto vado di “malasanità” emerge da un oceano sterminato di casi risolti nel migliore dei modi possibili, di pazienti guariti e dimessi dagli ospedali, del salvataggio di vite che solo pochi decenni prima non sarebbe stato in alcun modo possibile. La scelta di vaccinarsi si fonda, o dovrebbe fondarsi, proprio su questa base logica inoppugnabile: il potenziale rischio del singolo individuo diventa secondario a fronte del potenziale benessere che il vaccino induce nell’intera popolazione.
lo stesso vale per l’errore medico. Il medico che scegliete di mettere alla gogna ha già salvato centinaia di vite che senza di lui, e il sistema sanitario che lo contiene, sarebbero andate perse. Il suo errore si inscrive nel perimetro di una disciplina (la Medicina) in cui il rischio-zero e l’errore-zero, allo stato attuale, non possono sussistere. La medicina è una scienza in evoluzione continua che ogni giorno aggiorna e al tempo stesso, aggiornandosi, smentisce se stessa: ma lo fa avvalendosi del metodo scientifico, lo stesso che fra tentativi falliti e altri andati a buon fine ci ha portato ad allungare la vita media delle persone a 85 anni. Diventando capace di affrontare e risolvere problemi fisici che prima, semplicemente, ammazzavano le persone senza possibilità di rimedio. Accusare e far condannare un medico, salvo i casi in cui sia evidente (più che la negligenza) il dolo, equivale a privare la comunità di un servizio che, nella stragrande maggioranza dei casi, è risolutivo dei problemi per i quali i cittadini si rivolgono agli ospedali.
Tutto questo ho provato maldestramente a spiegarlo, alle otto di sera e dopo una giornata intera di lavoro convulso, alla persona con cui stavo parlando al telefono. A un certo punto questa persona mi ha chiesto: Ma cosa sta cercando di dirmi? Sottintendendo con un certo malcelato fastidio che il mio scopo fosse quello di farla recedere dalla volontà di denunciare il medico reo dell’errore diagnostico sul papà.
Ma il punto era un altro. Prima ancora dei no-mask, no-vax e no-pass non avevamo capito che in giro c’era già una nutrita popolazione di no-med. Persone che avevano gia da tempo scelto di informarsi dal dottor Google piuttosto che da un medico serio; di rivolgersi a mestatori privi di referenze che dai loro siti internet danno consigli sanitari per acchiappare clienti; di fare affidamento su legali privi di etica e scrupoli per i quali conviene comunque andare avanti perché tanto “poi mi paga solo se vinciamo la causa”. I no-med sono quelli che se qualcuno ha un malore durante la manifestazione contro i vaccini chiedono se c’è un medico in piazza: perché alcuni privilegi della modernità ormai sono dati per scontati. Così tanto che non è prevista nemmeno la possibilità di errore in una pratica metà scientifica e metà empirica come la medicina, in cui l’errore è, almeno per adesso, come dicevamo, inevitabile.
Ma il problema non è che l’errore medico sia o meno inevitabile. Io a quella persona con cui ho speso l’ultima mezz’ora di lavoro della giornata avrei solo voluto chiedere questo: come è potuto accadere che il proprio orticello, il proprio interesse privato, abbiano assunto un’importanza così rilevante rispetto all’interesse generale? Ma poi alla fine non l’ho fatto: non sarei stato capace di trovare le giuste parole senza risultare, in qualche modo, offensivo. E io non volevo essere offensivo: avrei solo voluto ragionare, nonostante la stanchezza tremenda delle dodici ore di lavoro continuato, ed esprimere un punto di vista obiettivo e pacato. Far comprendere che, al di là del proprio dolore o danno personale, esiste un consorzio umano che tutti ci contiene e in qualche misura garantisce, anche quelli no-qualcosa. E che con la paura della morte, che nuove ogni nostro pensiero, bisogna saperci prima o poi fare i conti.
Perché non è negando una malattia o la sua cura, oppure punendo un medico per i suoi presunti o accertati errori che allontanerete la paura della morte, o il suo inevitabile arrivo, o l’evidenza terrificante che su questa terra siamo solo di passaggio e il nostro passaggio è, che lo vogliamo o no, che ci piaccia o meno, quasi sempre assolutamente ininfluente.
Dott. G. Addonisio