L’immagine per adesso più iconica dell’emergenza sanitaria è quella della lunga, interminabile colonna di camion dell’esercito, carichi di bare, lungo le strade deserte di Bergamo.
Siamo tutti colpiti dalla pandemia, è vero, ma alcuni luoghi lo sono più di altri. Bergamo e la sua provincia, per adesso, stanno pagando il conto più caro. La camera mortuaria del cimitero è piena. La chiesa di Ognissanti, all’interno del cimitero monumentale, è piena. I morti sono così tanti che i forni crematori, anche se lavorano giorno e notte, non riescono a gestire tutte queste salme.
Ecco, i camion dell’esercito servono appunto a trasportare le salme verso i forni crematori che le regioni limitrofe hanno messo a disposizione. Così, in questo scenario irreale di desolazione, di guerra, in questa cattedrale del dolore che è diventata la città di Bergamo, questa lunga colonna di camion diventa una specie di lungo filo che ricuce pezzi d’Italia diventati negli anni troppo distanti tra loro: convinti come siamo stati che i confini tra stati e regioni siano reali e che ognuno deve prima badare a se stesso e poi, se avanza qualcosa, agli altri.
L’emergenza, quella più terribile, ci sta insegnando che invece dipendiamo gli uni dagli altri, che siamo cellule di uno stesso organismo.
La condivisione delle salme delle persone care, insomma, sta ricordando ai bergamaschi che non sono soli; e sta insegnando nuovamente, a chi accoglie quelle salme, che i sentimenti più nobili per un essere umano sono la pietà e la compassione.
L’epidemia potrà metterci in ginocchio, forse. Ma non potrà impedire, un giorno non più tanto lontano, che tutti torniamo ad abbracciarci.
Con più consapevolezza di prima, forse: e la morte di chi è mancato in queste circostanze così tragiche assumerà un senso più grande di quello che adesso, affranti dal dolore, riusciamo a immaginare.
dott. G.Addonisio